Come abbiamo appreso dall'aerodinamica, il controllo dell'incidenza è cruciale nel determinare le due
velocità di volo (verticale ed orizzontale) e, conseguentemente, anche l'efficenza (che esprime il loro
rapporto). In attesa di approfondire meglio l'argomento (aerodinamica applicata al parapendio), semplifichiamoci
la vita affermando che il controllo dell'incidenza viene effettuato azionando entrambe i freni in ugual misura.
Con i freni completamente rilasciati, l'angolo di incidenza è il minore possibile (trascurando volutamente
la possibilità, rischiosissima con alcune ali, di trazionare gli elevatori anteriori per ridurlo ulteriormente).
Man mano che si tirano i freni l'angolo di incidenza aumenta fino a raggiungere quello di stallo (evento che si verifica, con la maggior parte delle ali, mantenendo i freni all'altezza del sellino).
Un parapendio, dunque, quando è lasciato a sè stesso (freni completamente rilasciati) vola alla sua velocità massima.
Portando i freni all'altezza delle spalle si viaggia alla velocità di massima efficienza, quella cioè nella quale diviene ottimale il rapporto tra caduta ed avanzamento; in aria calma, è la velocità che ci permette di andare più lontano.
Rallentando ulteriormente (freni all'altezza del petto), si ottiene la velocità di minima caduta: in aria calma e a parità di quota questa velocità è quella che ci permette di stare in aria più a lungo.
Mentre con altri mezzi volanti, un rallentamento anche lieve effettuato a partire dalla velocità di minima caduta porta allo stallo, con molti parapendio esiste la possibilità di assumere e mantenere una condizione intermedia (come trazione sui freni) tra le due, la velocità (ci sia consentito il termine) di prestallo.
In questa situazione (freni ulteriormente abbassati rispetto alla velocità di minima caduta) l'ala avanza pochissimo ma, in compenso, scende ad una velocità anche notevole (3-4 m/s e più).
Tirate ancora e siete alla velocità di stallo: ciò che accade a questo punto dipende molto dal modello utilizzato, tuttavia l'ala smette di sviluppare portanza e quindi, in senso tecnico, non vola più.
Nella maggior parte dei casi la vela collassa (condizione chiamata da alcuni post-stallo) e si scende in caduta libera fino a che non si riapre e vengono ripristinate le normali condizioni di volo.
Alcune vele reagiscono allo stallo, specie se indotto molto lentamente, entrando in una condizione nota come stallo paracadutale: la velocità di avanzamento è quasi nulla e quella di discesa è molto elevata, potendo raggiungere e superare i 6-8 m/s (vedi oltre).
Figura 6-18. Il passaggio dalla velocità di massima efficienza a quella di minima caduta peggiora la traiettoria di discesa anche se, per qualche istante, si ha l'impressione opposta: questo fenomeno momentaneo è dovuto alla trasformazione della maggior velocità precedente in "quota".
Non è immediatamente intuitivo che, passando dalla velocità di massima efficenza a quella di minima caduta, la traiettoria di discesa divenga più ripida: quando si compie tale manovra, infatti, la sensazione è quella di venire addirittura "sollevati"; e allora?
Effettivamente, per qualche istante, la traiettoria si fa meno ripida: è il tempo durante il quale la nostra
velocità precedente viene trasformata in quota (Fig. 6-18).
Dopo un attimo, però, stabilizzati sulla nuova velocità (più lenta) la traiettoria, effettivamente,
si inclina maggiormente (se così non fosse quella attuale e non quella precedente sarebbe la velocità di
massima efficenza).
Anche se le vele utilizzate per la scuola sono in grado di recuperare, autonomamente e rapidamente, il normale assetto di volo, vale la pena di accennare alle manovre utili per accelerare tale processo. Una trattazione più dettagliata è fornita tra poche pagine, parlando delle chiusure e degli assetti inusuali.
Ve ne sono di due tipi: laterale e longitudinale.
Il pendolamento laterale, molto frequente durante le prime correzioni di rotta, consegue ad una o più
sovraccorrezioni consecutive in virata (trazioni eccessive e prolungate dei freni); esso viene rapidamente smorzato
dall'ala stessa, a patto che il pilota mantenga entrambi i freni a pari altezza (idealmente tra orecchie e spalle)
per qualche secondo.
Il pendolamento longitudinale, che ricorda un "giro" in altalena, può derivare da correzioni brusche di incidenza (frenare bruscamente o rilasciare di colpo entrambi i freni) ma, più spesso, è il risultato della entrata o della uscita da bolle termiche. Mantenendo il paragone con l'altalena, possiamo distinguere due momenti rilevanti (Fig. 6-19) un momento di "risalita" ed uno di caduta in avanti.
Manovra di correzione: per fermare il pendolamento si deve accelerare la vela iniziando dal momento di verticalità per tutta la fase di risalita e, se questo non è stato sufficiente, frenare durante le fasi di ritorno. Sia pur un poco più lentamente, tuttavia, anche questo pendolamento viene smorzato ed annullato dalla stessa vela, posto che il pilota non intervenga inopportunamente.
Figura 6-19. Per correggere un pendolamento longitudinale è necessario accellerare durante la fase A e, se non è sufficiente, rallentare durante la fase B.
Se entrambi i freni vengono abbassati completamente (all'altezza del sellino o più in basso) la vela stalla e, dopo qualche secondo, collassa. La drammaticità della situazione è direttamente correlata alla quota, dal momento che il recupero da una posizione di questo tipo determina la perdita di un'altezza considerevole (vedi la sezione "chiusure ed assetti inusuali).